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  Canto e ricanto e lu mi' amor nun zente

RELAZIONE DEL PROF. TULLIO SEPPILLI

Su tutto il territorio della regione umbra – anche nelle aree meno coinvolte dallo sviluppo urbano-industriale – la cultura tradizionale contadina è ormai entrata (come quasi ovunque nel nostro paese) in una fase finale di rapida dissoluzione.
Al fondo di questo processo sta una complessa costellazione di fattori che vanno trasformando insieme alle vecchie forme della coscienza sociale contadina le stesse basi di classe di cui esse erano espressione: l’ingresso di nuove tecnologie lavorative e l’integrazione dell’agricoltura nella nostra economia di mercato, la crisi della mezzadria e di altri sistemi di di produzione tradizionali, lo sviluppo della lotta di classe nelle campagne, l’aumentata mobilità e l’estendersi delle infrastrutture e della rete delle comunicazioni di massa, la penetrazione – ad un tempo – dei modelli culturali proposti dal movimento operaio e di quelli veicolati dal capitalismo avanzato, l’esodo contadino e i conseguenti fenomeni di spopolamento e disgregazione sociale. In questo quadro, sotto la spinta dirompente degli effetti e degli squilibri di un processo di modernizzazione che sempre di più si produce altrove, e trova altrove la chiave della sua logica complessiva, crollano – insieme – il vecchio mondo contadino tradizionale e la ipotesi di un suo rinnovamento senza che esso perisca in quanto aggregazione di classe: scompare, cioè, il terreno stesso su cui si erano mosse in questo dopoguerra le grandi lotte contadine dei mezzadri, ultimo tentativo di gestire in proprio, come classe appunto, la ipotesi del proprio ingresso nella società moderna. Lo spopolamento di intere aree, la fortissima riduzione e l’invecchiamento relativo della popolazione contadina, la disgregazione delle grandi famiglie patriarcali e l’isolamento dei nuclei anziani ancora attestati nelle vecchie case coloniche, la caduta delle antiche forme di aggregazione e comunicazione di classe, la crescente conflittualità psico-culturale, costituiscono il segno di una rottura ormai irreversibile.
Sono radicalmente mutati, così, lo stile di vita e l’intero assetto socio-culturale che nella musica contadina tradizionale avevano trovato una loro espressione: la struttura dei ruoli familiari e lavorativi, i valori e le mete individuali e collettive, l’immagine della natura e del territorio, l’atteggiamento verso la vita e il quadro ideologico complessivo. E, in particolare, sono cadute le occasioni-funzioni in riferimento alle quali tale musica si collocava e traeva significato: i momenti ciclici decisivi delle tradizionali modalità di lavoro agricolo (insieme alle costruzioni mitico-rituali che ad essi via via corrispondevano nel corso dell’anno) e le vecchie forme istituzionali di integrazione sociale, di vita familiare e di rapporto tra i sessi. Il risultato è la tendenziale scomparsa dell’intero corpus dei canti tradizionali (e delle capacità vocali e strumentali ad essi connesse) e il costruirsi di uno spazio aperto all’ingresso di forme musicali diffuse dai grandi mezzi di comunicazione di massa e “fruite” da coloro che sono rimasti nelle campagna senza che sussistano, ormai, il tempo e le condizioni per una loro effettiva “riappropriazione” e “riplasmazione”. Così, è ormai praticamente impossibile registrare in condizione “spontanee” i canti per la mietitura, per la spannocchiatura del granturco o per la raccolta delle olive o delle castagne, le canzoni epico-liriche, le ninne-nanne, gli stornelli di corteggiamento o di ripulsa, i balli di paese accompagnati dal suono di organetti o di fisarmoniche, il patrimonio – cioè – che un tempo costituiva il risvolto musicale di ogni momento significativo della vita quotidiana.
Di fronte a questo processo di dissoluzione della cultura tradizionale contadina, in particolare delle sue espressioni musicali, si è venuto organizzando nella regione umbra – come in altre aree del Paese - un vasto lavoro di inchiesta diretto a documentare quanto ancora rimane (sia pure nella sola memoria degli anziani senza riscontro, ormai, nella pratica quotidiana). Questo lavoro, iniziato oltre vent’anni fa dal Centro nazionale studi di musica popolare e dall’Istituto di etnologia e antropologia culturale della Università degli studi di Perugia, ha assunto oggi un ritmo serrato e vede impegnati, insieme a ricercatori direttamente legati all’Istituto, raccoglitori isolati e numerosi gruppi di base, con un risultato complessivo che si aggira oramai intorno alle duemila registrazioni.
Disponiamo dunque, a questo punto di una documentazione etnomusicologica abbastanza rilevante la quale può venire messa a confronto, peraltro, con quella – assai cospicua e tuttavia limitata ai soli testi verbali – prodotta negli ultimi decenni dell’800 e nei primi anni di questo secolo <il ‘900>* , da ricercatori in qualche modo connessi a una matrice positivistica. Ora si tratta di capillarizzare le indagini, di colmare le lacune rispetto alle aree meno esplorate, di individuare un maggior numero di varianti, e soprattutto di approfondire il lavoro di confronto e di interpretazione. E si tratta di agire in fretta, prima che scompaiano gli ultimi testimoni-protagonisti di una civiltà che muore.

Ma qual è il senso di questa operazione?
Alla base di tale impegno sta innanzitutto un obiettivo conoscitivo. Fuori da ogni compiacimento romantico per una “riscoperta dell’arcaico” si tratta di contribuire, mediante la raccolta e lo studio dei documenti della espressività musicale contadina, alla ricostruzione di quella storia delle classi subalterne, delle loro condizioni materiale e della loro vita culturale, nei cui confronti sono stati negati, finora, per ben precise ragioni, spazio di ricerca e dignità di valore scientifico e politico.
Il vero problema, tuttavia, si pone in termini di raccordo tra politica della ricerca e politica culturale. Esso concerne il significato e la funzione, oggi, di una possibile “riproposta” pubblica – a chi, in quali situazioni e attraverso quali canali – della canzone contadina tradizionale. Il problema dunque della prospettiva e della logica di classe in cui una operazione di “riproposta” si muove, e della adeguatezza di testi nati in tutt’altre condizioni storiche – le pure e semplici registrazioni di inchiesta, e quali, o il frutto di una loro rielaborazione “aggiornata” – rispetto alla iniziativa e agli obiettivi che si vogliono promuovere.
E’ noto come intorno a tale problema sia in atto, in Umbria come altrove, un vasto dibattito e vengano avanti un gran numero di risposte e di esperienze concrete.
E’ in tale quadro che si situa l’attività del gruppo L’Altra Spoleto, un collettivo di indagine etnomusicologica che ha lavorato in questi anni nell’area spoletina e presenta ora, in questo disco, alcuni risultati delle sue ricerche scegliendo una particolare formula di “riproposta”: quella del semplice “passaggio” dai testi delle registrazioni originali a una edizione cantata da membri del collettivo e accompagnata da uno di essi con la chitarra.
Le canzoni qui “riproposte” rappresentano abbastanza bene la varietà ideologica del patrimonio musicale contadino di questa zona ove si consideri, tuttavia, che non vengono dati documenti delle forme più arcaiche (i canti “a vatocco” per la mietitura, ad esempio) e delle “passioni”.
Parecchie di esse – Canto e ricanto e lu mi’ amor nun zente, Sardarellu, Contrasto, Cecilia, ad esempio – trovano riscontro, per l’intero testo verbale o per singoli frammenti, nella raccolta spoletina pubblicata nel 1916 da Mario Chini (Canti popolari umbri raccolti nella città e nel contado di Spoleto, Città di Castello, XLII+286 pp.), dove Rinello, ora ridotto a pochi versi, è dato in una lezione assai più organica (e comprensibile). Cecilia, peraltro, costituisce una tra le varianti umbre di quella che insieme a Donna Lombarda (anch’essa largamente documentata nella regione) è forse la più importante e diffusa canzone epico-lirica italiana, mentre vale la pena sottolineare come O pescator dell’onde, il cui titolo è ripreso da un’altra notissima canzone epico-lirica diffusa in tutta Italia (e in Francia) e documentata per lo Spoletino dallo stesso Chini, risulta invece essere la base al testo verbale di tutt’altra cosa.
Più in generale queste canzoni per la loro evidente eterogeneità – di origine o. comunque, di codificazione temporale, di provenienza regionale, di rielaborazione dialettale – testimoniano degli intensi e assai vasti e contraddittori processi di attività-subalternità, di reintegrazione e di circolazione culturale (territoriale e di classe) entro cui si è venuto costituendo anche in Umbria il patrimonio etnomusicologico che noi chiamiamo schematicamente in una sola parola “tradizionale”.
Testimoniano anche della elaborazione contadina di vere e proprie canzoni contestative “di classe” – di denuncia e di lotta – come Signor padrone (vedi per questa materia anche canti e proverbi raccolti agli inizi del secolo <il ‘900>*, nell’Alta valle del Tevere da Giuseppe Nicasi e il recente articolo di Francesco Santucci, Fra Ottocento e Novecento. Canti umbri di protesta, “La Nuova Sardegna”, 12 agosto 1967, p. 3). E testimoniano infine, con la straordinaria canzone Infame Turchia ancora ricordata da un mezzadro di Giano dell’Umbria oggi ottantenne, che l’aveva appresa durante la guerra libica, di come i contadini italiani trascinati a far carne da cannone nelle sciagurate imprese coloniali sapessero cogliere e denunciare, al di la dei “nemici” sul campo, i veri responsabili di classe della loro tragedia.

TULLIO SEPPILLI

*nota attualmente aggiunta per ulteriore chiarezza: l’Autore infatti la redasse nel 1975 cioè durante lo scorso secolo.

 

 


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