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Atlantide
Quando mi è venuto in mente di scrivere
un poema ispirato ad Atlantide, il mio sguardo si è
rivolto inevitabilmente all'Ottocento. Nessuna epoca ha, come
il XIX secolo, alimentato con maggiore fantasia l'antico mito
platonico. Atlantide è – proprio come questo
secolo – l'immagine di un mondo perfetto, “aureo”
attraversato dal silenzioso fiume carsico della decadenza.
La “mia” Atlantide, dunque, non è quella
dello sfarzo marmoreo e volgarmente luccicante delle produzioni
hollywoodiane; la “mia” Atlantide è il
continente della fine le cui nebbie oceaniche e i cui chiarori
al tramonto si ritrovano nelle tele di Turner, dove una luce
dorata accarezza, in un perenne tramonto, le rovine dei templi.
I versi “cantati” da questo luogo finale sono
quelli di Byron: grandi velieri abbandonati affondano negli
abissi marini – “And ocean all stood still /And
nothing stirred within their silent depths”. O gli orizzonti
“oltre il mondo” della stupefacente musica wagneriana.
Ho, perciò, di Atlantide una visione struggente come
di un mondo che ci si mostra al tramonto, ma delle cui meravigliose
grandezze non fummo mai testimoni, la sua luce è riflessa,
ci raggiunge aggrappata ad un ricordo di cui non abbiamo memoria.
Tutto “lontano” e “altrove”, dunque?
Solo in parte perché se dopotutto la “mia”
Atlantide mi ha “raggiunto” nella mia musica è
proprio perché mi parla per il suo senso della fine,
di quel senso terminale che, in un modo o nell'altro, attraversa
il nostro Occidente – questa “terra della sera”
come recita il suo etimo – proprio dall'Ottocento in
poi..
Luigi Maiello
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